Una persona mi ha chiesto di scrivere qualcosa sulle “comunità anarchiche”; l’argomento (anche se la richiesta non fosse state espressa in termini così vaghi) sarebbe comunque abbastanza vasto da scriverci un libro di diverse centinaia di pagine. Tenterò, quindi, nei limiti del possibile di semplificare al massimo senza togliere nulla alla completezza della trattazione; oltre a questa premessa ve n’è un’altra che è indispensabile fare, dal momento che mai è esistita ideologia politica più fraintesa dell’anarchismo, per cui chiariamo sin da subito che una “comunità anarchica” non è una comunità in cui non esistono regole ed ognuno fa quel che gli pare, anarchia, infatti, significa (anche etimologicamente) assenza di governo, non assenza di regole. Detto questo il tema andrà sviscerato da due punti di vista, uno oggettivo, l’altro personale; non può che essere così dal momento che l’anarchismo (riconosciuto il principio ideologico fondamentale, che è il rifiuto del governo) può essere declinato in una miriade di forme differenti. La questione andrà quindi affrontata da due distinti punti di vista:

1) le comunità anarchiche nel sistema attuale: che potrò affrontare in maniera oggettiva, dal momento che ve ne sono una miriade sparse ovunque nel mondo
2) le comunità anarchiche nell’organizzazione sociale anarchica: e qui scadrò inevitabilmente nell’opinionismo, per cui ciò che esporrò non avrà, per forza di cose, nulla di oggettivo

Le comunità anarchiche nel mondo

Credo che non esista paese al mondo in cui non esistano comunità anarchiche, più o meno dichiarate tali, alcune delle quali hanno ormai alle spalle una storia decennale; lo studio di queste comunità è particolarmente interessante perché mostra come l’anarchismo possa essere declinato in una miriade di forme differenti, pur mantenendo il fondamento ideologico del rifiuto del governo e dell’autorità. Alcune di queste comunità, ad esempio, rifiutano l’uso del denaro e per gli scambi ricorrono al baratto, altre ancora fanno un larghissimo uso del denaro e si reggono su donazioni provenienti da ogni parte del mondo, altre ancora assomigliano a degli “ecovillaggi” in cui la comunità coopera per il proprio sostentamento. Partiamo dal nostro paese, nel quale esistono numerose comunità anarchiche, principalmente organizzate nella forma di ecovillaggi; nonostante gli ecovillaggi abbiano tutti in qualche misura una forma organizzativa, che richiama in maniera più o meno diretta l’anarchismo, in Italia abbiamo almeno un caso di ecovillaggio che si dichiara esplicitamente anarchico ed è la comune di Bagnaia (in provincia di Siena), nata concettualmente alla fine degli anni ‘70, ha però preso concretamente vita solo molti anni più tardi. Attualmente annovera appena venti residenti e, come qualunque ecovillaggio, l’agricoltura rappresenta il cuore pulsante del progetto. La comunità anarchica per eccellenza in Italia si trova però a Cistonaro (al confine tra la provincia di Brindisi e quella di Taranto), si chiama “Uropia” ed è nata nella seconda metà degli anni ‘90. La comunità si è dotata di tutte le principali infrastrutture, non si limita all’attività agricola in senso stretto, ma porta avanti numerosi progetti tra cui, inevitabilmente, quelli relativi all’educazione, secondo i principi della pedagogia libertaria. Chi volesse approfondire la conoscenza di Uropia, e magari visitarla, potrà fare riferimento al sito web della comunità https://urupia.wordpress.com Spostandoci più a nord, in Europa, troviamo la città autonoma di Christiania, in Danimarca, una delle comunità anarchiche più longeve al mondo, con una popolazione di circa un migliaio di abitanti, nata dall’occupazione di una base navale dismessa nel lontano 1971. Nonostante i numerosi tentativi del governo danese di sgomberare la comunità questa è sempre riuscita a resistere negli anni; non si tratta di una semplice comune, come si potrebbe credere, ma di una sorta di “città libera” come la definiscono i suoi stessi residenti. Basti pensare che mentre il consumo di droghe leggere in Danimarca è illegale, non lo è a Christiania dove nella famigerata “pusher street” la vendita di hashish avviene alla luce del sole; quando il governo danese, nel tentativo di conservare le apparenze, ha chiesto un minimo di discrezione la risposta della comunità è stata di coprire le bancarelle dove l’hashish viene venduta con delle tende mimetiche, che danno ancora più nell’occhio rispetto a quanto non avvenisse in precedenza. L’ironia e lo sberleffo al potere, del resto, fanno parte della storia e della cultura anarchica da sempre. Continuando il nostro viaggio tra le comunità anarchiche del mondo arriviamo dall’altra parte dell’oceano, negli Usa, dove troviamo un’altra comune decisamente longeva, The Farm, fondata anche lei nel 1971 e nella quale vivono ancora oggi un centinaio di persone. Gli Usa sono comunque una nazione particolarmente fertile per quel che riguarda questo tipo di comunità, ed il paese è letteralmente disseminato di piccole comuni, più o meno dichiaratamente anarchiche; elementi di anarchismo, ad esempio, sono presenti anche nelle comunità amish, nonostante queste non si dichiarino anarchiche, mentre è dichiarata l’appartenenza al pensiero anarchico delle TAZ (acronimo che in italiano può essere tradotto come “comunità temporaneamente autonome”) ideate dallo scrittore anarchico Hakim Bey e che sono spuntate come funghi in tutti gli Stati Uniti durante le proteste per l’omicidio Floyd. Vi sono ovviamente esperienze e comunità anarchiche anche nel resto del mondo, più o meno grandi, più o meno rilevanti, ma direi che possiamo fermarci qui, abbiamo già dimostrato come il concetto di comunità anarchica possa trovare una piena applicazione anche senza innestarsi su una dinamica rivoluzionaria, ricavando gli spazi che gli servono per esistere anche all’interno del sistema attuale.

L’organizzazione sociale anarchica

Più complesso, e soggettivo, è invece il discorso che riguarda l’organizzazione sociale anarchica come alternativa all’attuale organizzazione sociale. Nonostante vi siano stati diversi tentativi, a livello storico, di pervenire a uno stato anarchico (l’esempio più famoso in merito riguarda la guerra civile spagnola del 1936), non esistono ad oggi esempi di stati anarchici. Di recente un esperimento molto interessante è stato avviato dai curdi nel nord della Siria con la nascita della Rojava, un paese (non riconosciuto dalla comunità internazionale) che si fonda a livello economico sul pensiero marxista ed a livello politico sull’anarchismo, tuttavia neanche questa esperienza può essere elevata a modello di riferimento. Entrando più nello specifico il problema, se così si può chiamare, con l’organizzazione sociale anarchica è che, come accennato, questa rifiuta il governo e le istituzioni organizzate in maniera gerarchica, non rifiuta l’esigenza per la comunità di darsi delle regole; rifiutando l’organizzazione gerarchica e le sue istituzioni l’anarchismo afferma che le regole devono emergere dal basso ed essere condivise da tutti, devono cioè essere espressione di un consenso unanime. L’unanimità come cardine dell’anarchismo è la logica conseguenza del rifiuto della violenza e della coercizione come strumenti di governo; solo una regola che è condivisa ed accettata da tutti come necessaria potrà essere rispettata senza l’esigenza di un’autorità che, attraverso l’uso della forza, ne imponga il rispetto. Ottenere l’unanimità, però, non è una cosa esattamente semplice e tende a diventare tanto più complicata da ottenere (fino ad essere sostanzialmente impossibile) all’aumentare delle persone da mettere d’accordo; per eludere questo problema spesso il pensiero anarchico ha ripiegato sul concetto di maggioranza largamente qualificata, per cui, posta la necessità di tentare comunque in prima istanza di pervenire all’unanimità, di fronte ad opposizioni che spesso rivelano avere anche una natura pretestuosa, si ripiega sulle larghe maggioranze (ad esempio superiori al 75% dei membri di una comunità). Immaginiamo di dover riscrivere il sistema di regole per l’Italia, mettere d’accordo 60mln di italiani sul fatto che uccidere è sbagliato sembra, sulla carta, decisamente facile; nella realtà, però, questo concetto si scontra con le opposizioni pretestuose, per cui è facile che anche solo un centinaio di bastian contrari, su una popolazione di 60mln di abitanti, possa avere da eccepire che no, in alcune circostanze uccidere può essere non solo accettabile, ma addirittura necessario. Tale obiezione potrebbe anche essere ottimamente argomentata (non avendo quindi una natura pretestuosa) ad esempio nel caso della cosiddetta legittima difesa; qui la comunità anarchica non potrebbe che accogliere la pertinenza dell’obiezione, riaprendo la discussione e ripensando la regola in maniera tale che preveda al contempo sia il divieto di uccidere che la legittima difesa. Questo esempio spiega bene perché la ricerca dell’unanimità è comunque un presupposto irrinunciabile per l’anarchismo, perché gli anarchici riconoscono che l’essere maggioritari non significa necessariamente essere nel giusto; il ricorso alle maggioranze largamente qualificate, quindi, viene posto come strumento di ultima istanza per fare in modo che le obiezioni che hanno natura pretestuosa non provochino un sostanziale immobilismo. Resta, però, in questa forma di organizzazione sociale un problema difficilmente risolvibile e che consiste, come chiunque può immaginare, nel mettere d’accordo tutto un paese; in Italia, ad esempio, vivono 60mln di persone (poco meno di 50mln di aventi diritto di voto), per cui se si dovessero mettere d’accordo tutte queste persone su ogni singola regola vivremmo in una sorta di assemblea di condominio permanente, nella quale l’assoluto immobilismo la farebbe da padrone. Appare quindi chiaro il motivo per cui l’anarchismo, come organizzazione sociale, anche a livello sistemico, è sostanzialmente applicabile solo a comunità ragionevolmente piccole, diventando un sistema via via sempre più farraginoso e ingestibile al crescere della platea di persone che devono poter concorrere al prendere le decisioni; per tutti questi motivi, sin dalla sua nascita, l’anarchismo ha optato, come forma di governance politica preferita, per il federalismo. Il concetto di federalismo anarchico, però, è profondamente differente da come lo vediamo applicato in paesi come la Svizzera o gli stessi USA, dal momento che in questi paesi esiste un governo centrale federale, cioè una istituzione (il governo) che l’anarchismo rigetta completamente. Nel federalismo anarchico, quindi, sono le singole comunità che, a furia di sottoscrivere accordi tra loro, danno vita a una federazione della quale ogni comunità può far parte o meno, a propria completa discrezione. Immaginiamo, per fare un esempio, di avere un acquedotto che serve più territori; le varie comunità si federeranno tra loro per gestire, tutte insieme ed alla pari, questa infrastruttura. Non è però automatico che tali comunità vorranno gestire alla stessa maniera un’infrastruttura diversa, come ad esempio la rete elettrica o quella fognaria. Potrebbe quindi accadere che per amministrare la rete elettrica si crei una federazione più grande, che raccoglie cioè un numero maggiore di comunità rispetto a quella che gestisce il nostro acquedotto, al fine di gestire meglio l’intermittenza che caratterizza le rinnovabili e acquistare materie prime (pensiamo al gas, o alla benzina) a prezzi più bassi, mentre per la gestione delle fogne potremmo avere un maggior spezzettamento, tanto da arrivare al punto in cui ogni comunità ha la sua rete fognaria e se la gestisce autonomamente. Una delle maggiori perplessità che il tipo di organizzazione sociale fin qui descritta suscita nelle persone che hanno poca confidenza col concetto di anarchismo riguarda il modo in cui una singola comunità potrebbe riuscire a far fronte, da sola, a calamità naturali come terremoti ed alluvioni; se, infatti, per la costruzione di infrastrutture comuni, come appunto la rete elettrica o quella ferroviaria, è abbastanza naturale che le diverse comunità si federino a fronte di una necessità che è comune, quando si tratta di eventi che colpiscono una singola comunità o un gruppo ristretto di persone, si tende a pensare che tutti gli altri, in assenza di un governo centrale, si volterebbero dall’altra parte abbandonando coloro che sono stati colpiti dalla suddetta calamità al proprio destino. In realtà le cose non stanno affatto così e lo possiamo verificare, purtroppo, periodicamente ogni qual volta il nostro paese (e non succede di rado) viene colpito da una qualche calamità naturale; nonostante, infatti, il compito di stanziare i fondi a beneficio delle comunità colpite spetti naturalmente al governo, quello che in realtà succede è che tutto il paese si mobilità in una gara di solidarietà, tanto che di norma i primi soldi che arrivano a beneficio delle popolazioni colpite sono quelli raccolti con le donazioni private. Andrebbe inoltre considerato che tutti siamo consapevoli che una calamità naturale potrebbe colpire qualunque comunità in qualunque momento, di conseguenza la consapevolezza del fatto che nessuno potrebbe far fronte a questo genere di avvenimenti da solo, spingerebbe le varie comunità a creare un fondo comune, proprio per affrontare adeguatamente questo genere di disavventure; per gestire tale fondo non ci sarebbe, ovviamente, bisogno di alcun governo dal momento che sarebbero direttamente le comunità colpite a definire l’entità degli stanziamenti di cui avrebbero bisogno e a gestirli in maniera diretta e senza intermediari di sorta. Non si tratta, quindi, a ben vedere di solidarietà, ma semplicemente di lungimiranza; il concetto che fa da fondamento alla teoria anarchica non è che le persone siano buone e solidali, ma semplicemente che tutti siano capaci, in linea di massima, di tutelare i propri interessi. Il vero problema, se così si può chiamare, è più di natura politica e riguarda la possibilità, per ogni comunità, di scegliere da se il modello economico e sociale cui fare riferimento; con questo intendo dire che è un errore credere che con l’avvento di una organizzazione sociale di tipo anarchico si instaurerebbe automaticamente il socialismo (o il comunismo). In alcune comunità, ad esempio, avremo sicuramente la realizzazione si una sanità 100% pubblica, in altre si conserverebbe il modello ibrido (un po’ pubblico e un po’ privato) che già abbiamo oggi, in altre ancora, inevitabilmente, le persone deciderebbero di adottare una sanità 100% privata, sul modello americano; non c’è modo di evitare che questo avvenga e sarebbe incoerente pensare di poter imporre un modello al posto di un altro a una determinata comunità. Se quello della sanità è un ottimo esempio per quel che concerne le questioni economiche, il caso delle comunità religiose ci aiuta a comprendere meglio la complessità della faccenda; lasciando ad ogni comunità la libertà di definire autonomamente come organizzarsi possiamo ipotizzare sin da ora che nascerebbero comunità organizzate secondo dettami religiosi. Non c’è, di nuovo, modo di impedire che questo accada; riconoscere ai popoli la possibilità di decidere autonomamente implica, inevitabilmente, che alcune comunità faranno anche scelte che risulterebbero inconcepibili per un anarchico. La libertà, quindi, che è il fondamento stesso dell’anarchismo, finisce inevitabilmente per contemplare anche la libertà di fare scelte sbagliate, o che comunque gli stessi anarchici non potrebbero mai condividere; si possono, come stiamo per vedere, limitare le storture che tutta questa libertà messa in mano ai popoli può finire col produrre, ma non si possono azzerare. Dal momento che le diverse comunità si federeranno tra loro, ad esempio (come abbiamo già avuto modo di accennare), per dare vita a un fondo che consenta loro di far fronte ad eventuali calamità naturali (fondo a cui ragionevolmente vorranno aderire tutte le comunità del paese), si potrà decidere che, per partecipare a questa grande federazione di portata nazionale, le varie comunità debbano sottoscrivere una comune costituzione; per poter risultare sottoscrivibile da tutti, all’unanimità, questa nuova ipotetica carta costituzionale dovrebbe avere tratti di universalità, cioè dovrebbe fondarsi su concetti facilmente condivisibili da tutti. Un documento con queste caratteristiche esiste già ed è la dichiarazione universale dei diritti umani; in questo modo, adottando la dichiarazione universale dei diritti umani come costituzione comune, ci garantiamo che l’assoluta libertà di cui godono le comunità locali non possa degenerare in qualcosa di violento o lesivo dei diritti umani fondamentali, ci garantiamo un’adesione piena e incondizionata a quei principi (che per la loro universalità non sono mai stati messi in discussione da nessuno) e ci dotiamo soprattutto di una carta che, per la sua enorme chiarezza, non è suscettibile di interpretazioni che ne possano in qualche modo distorcere il contenuto.

Conclusioni

Come abbiamo visto le comunità anarchiche, per poter esistere, non hanno alcun bisogno di rovesciare il governo o di dare vita a una fase rivoluzionaria, possono benissimo esistere anche all’interno dell’attuale organizzazione sociale. Qualora, invece, dovessero porsi le condizioni per un profondo cambiamento dell’organizzazione sociale, politica ed economica di un qualunque paese, tali da sfociare in una federazione anarchica, il “federalismo” si porrebbe come modello ideale per rendere sostenibile (sia ideologicamente che concretamente) un cambiamento così epocale. L’organizzazione sociale di tipo anarchico, inoltre, non ha nulla a che vedere coi modelli economici e, anche se la cosa rappresenterebbe un’assurdità per ogni anarchico, non c’è nulla che vieti o impedisca che all’interno di una comunità anarchica il modello economico utilizzato sia quello capitalista (se è questo che la comunità deciderà); in ogni caso i differenti modelli che si verrebbero a creare nelle diverse comunità alla fine entrerebbero, per così dire, in concorrenza reciproco e, nel tempo, inizierebbero ad emergere degli standard. Le diverse comunità, infatti, non hanno come scopo la difesa ideologica del modello prescelto, ma il continuo miglioramento delle proprie condizioni di vita, di conseguenza l’organizzazione sociale diverrebbe qualcosa di “scientifico”, producendo un avanzamento per tentativi, sulla base dell’esperienza empirica (esattamente come accade con le cosiddette “scienze forti”) e i modelli che, alla prova dei fatti, si rivelassero più funzionali al benessere della comunità finirebbero con l’essere adottati, in maniera assolutamente spontanea, da tutti. Non si tratta quindi di “populismo” né della convinzione che il popolo sia sostanzialmente infallibile, si tratta invece di riconoscere che ogni comunità, perseguendo il proprio benessere e il proprio interesse, finirebbe col muoversi naturalmente e spontaneamente verso quei modelli organizzativi che hanno dimostrato di essere oggettivamente migliori, creando così dei veri e propri standard sociali che potrebbero facilmente essere replicati ovunque nel mondo.